Un bar in provincia, una birra, un panino e un caffè d’orzo. Qui ho incontrato Roberto Natovecchio Camurri che sta avendo un gran successo con il suo libro d’esordio “A misura d’uomo”– NN editore..
Mi ha stupito la timidezza e la spontaneità di Roberto, un uomo dolce e pure carino ☺.
Il libro è un susseguirsi di racconti, di quadri, che hanno una vita propria e che non seguono l’ordine temporale degli avvenimenti. Tutti i personaggi vivono, sbagliano e fanno scelte, ma non c’è nessun giudizio da parte dell’autore, sembra esserci un destino preordinato nel quale non poter fare nulla.
Fabbrico, una città che è anche un protagonista, ricorda le pianure di Kent Haruf; cosa ne pensi? Già mi viene la pelle d’oca pensare che mi si avvicini ad Haruf. Credo che abbia detto bene Alberto Ibba (direttore commerciale e comunicazione di NN) sostenendo che è l’attenzione che entrambi abbiamo nel descrivere i rapporti che ci accomuna, io però sono più carnale, e dico anche qualche parolaccia nel libro. A Fabbrico sai che alla festa della birra c’è un cartellone gigante con scritto “Welcome to tecsas”, quindi c’è un pezzo d’America! Però io non sono mai stato lì, ho visto solo New York, ma ci voglio andare anche perché, con mio padre, ho visto sempre tanti film western.
A proposito di papà, che tipo di rapporto hai con lui e tu che padre sei? Mio padre si chiama Valerio (come uno dei protagonisti), perché volevo creare con il personaggio il rapporto che avevo con mio padre, che è stato un po’ di amore e odio. Sai, da ragazzo avevo una sola certezza, non essere come lui, e invece ora con mia figlia ripeto alcuni suoi comportamenti e ne sono pure fiero. Avendo una femmina è più facile, lui non mi ha mai detto ti voglio bene, ha usato solo dei gesti. Io sono cresciuto in un contesto dove le emozioni non sono mai state esternate a parole.
Nelle prime pagine Valerio legge un messaggio sul telefono “Portami al mare”; poi, quasi alla fine, il mare ancora ritorna, come in un cerchio. All’inizio il portarmi al mare finisce tragicamente, ma poi lo sguardo disperato verso il mare porta la speranza; infatti, il cerchio si chiude con l’idea che ci possiamo salvare tutti. Io conosco il mare descritto, è Monte Rosso, dove vado da quando avevo due anni. Però il libro non è autobiografico, non riguarda me; ho voluto raccontare le storie partendo da suggestioni mie, da parti di vissuto. Inizio spesso da episodi successi davvero per sentire meglio la storia.
Hai sempre scritto? In terza elementare ho deciso che scrivere era la cosa più bella del mondo, ho fatto un tema a piacere ed era lungo quattro pagine. Poi abitando a Fabbrico non puoi avere dei sogni, devi trovare un lavoro. Ho frequentato il liceo scientifico e poi Scienze della Comunicazione; Lettere non era fattibile, dato che non avrebbe aiutato a trovare un lavoro. Poi è nata mia figlia e io mi sono accorto che lei aveva il bisogno e il diritto di avere un padre felice, lo dovevo essere per lei. Ho conosciuto Ivano Porpora, ho frequentato un suo corso ed è andata bene, ho pubblicato.
Per vivere però fai un altro lavoro? Sì, e ci sono capitato per caso. Da dieci anni lavoro in questa cooperativa sociale. Dopo gli studi ho fatto il magazziniere per due anni, non ho mai pensato di fare qualche cosa che avesse a che fare con la mia laurea. Adoro scrivere, ma non sempre voglio vivere di scrittura, ci sono giorni nei quali fare l’educatore mi piace così tanto che penso di non mollare mai questa occupazione.
Ho trovato tanti non detti nel romanzo, è una mia impressione? Hai ragione. Io sono cresciuto tra i silenzi, è una vita che provo a interpretarli, quindi ho scritto per spiegare a me stesso. Il non detto porta emozioni e significati che forse sono anche più pesanti delle parole.
Molti sono i passi dove ti soffermi sulla espressività degli occhi? E’ il primo aspetto che noti nelle persone? Io guardo molto, sempre. Talvolta mi prendono in giro perché sembra che io sia nei posti come uno capitato a caso, distratto. In realtà io guardo tutto, mi apro così a quello che ho attorno, e ciò che vedo fa parte del mio modo di scrivere. Guardo negli occhi e mi piace.
A proposito di sensazioni, nel libro anche i ricordi sono trasmessi come sensazioni e non come immagini. Io sono così, faccio fatica a ricordare quello che è accaduto, nel senso delle azioni. Io vivo di immagini e sensazioni in testa e da lì parto per scrivere.
Il brano in cui si parla del cane Salvo mi ha fatto piangere, forse perché anche io ne uno. Tu? Ho sempre avuto un cane e Salvo è il più bello che abbia mai avuto (Roberto si commuove mentre ne parla). Era il ’98 e c’era Italia – Norvegia, subito dopo sono andato con mio padre al canile di Novellara. Nessun cane ci convinceva, ma mentre ci stavamo allontanando arrivò una telefonata per la consegna di una cucciolata che era stata venduta come dobermann con tanto di pedigree. Invece è bastato poco per capire che il mastino napoletano era arrivato prima del dobermann! Gli acquirenti non volevano molossoidi. Tra questi cuccioli abbiamo scelto Salvo. Io ho ancora il senso di colpa se penso alla sua morte. Premetto che a Fabbrico i cani stanno fuori, lo imparano subito. Salvo però una sera voleva a tutti i costi entrare in casa e io ovviamente non l’ho permesso. Poco dopo, al rientro di mio padre, è stato trovato morto.
Ci sono passi dove gli oggetti fanno sentire a casa. Quali sono i tuoi oggetti del cuore? Il fuoco del camino, anche se nella casa a Parma non c’è, ma abbiamo una stufa a legna che ci ha fatto innamorare della casa. E poi direi il lambrusco e un tagliere di salame.
Intervista completa pubblicata su CriticaLetteraria
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Sottolineando:
– Un libro dove le parole diventano immagini.
– Roberto Camurri è un uomo così vero che vien voglia di offrirgli Lambrusco e salame (li adora) per metterlo a suo agio
– Per chi ama i cani c’è un pezzo da non perdere (pag. 68-70).
– Il libro mi ha fatto riflettere sui non detti, ora ci faccio attenzione anche quando non rispondo chiaramente a mia figlia, solo la mia mimica facciale potrebbe farle male.