Dove mi trovo, per Guanda Editore è il primo romanzo che Jhumpa Lahiri scrive direttamente in italiano. L’autrice, che è nata a Londra da genitori bengalesi, vive tra New York e Roma e ha vinto il premio Pulitzer nel 1999 con L’interprete dei malanni, pubblicato in Italia nel 2000. Dunque, perché la scelta dell’italiano? Jhumpa Lahiri, durante un incontro a Milano per la rassegna “Tempo delle donne”, ha dichiarato che per lei scrivere in italiano “è stato un passo ardito” caratterizzato da una libertà espressiva che l’autrice ha voluto sperimentare, proprio scrivendo in una lingua che non è la sua lingua natia:
“Io vengo da fuori, ho osato, ho scritto in una lingua l’italiano che ho imparato da adulta, una scelta forte e anche un po’ folle. È una scelta che permette di sperimentare, mi allontano da una base linguistica familiare e vengo a trovare l’italiano, come un arrivo, un approdo che devo raggiungere ogni volta che scrivo in questa lingua che non è la mia. E allora non esistono più le distanze, quello che importa è che la lingua entri nel cuore del lettore. Per me scrivere in italiano è come un tuffo, è un piacere, ma c’è anche il pericolo: non è il mio elemento naturale”.
La protagonista del romanzo è una donna, non ha un nome così come non viene mai citata la città dalla quale, peraltro, questa donna si allontanerà. Si racconta attraverso quarantasei brevi brani, cartoline, illuminazioni, azioni e vuoti che si susseguono. L’ambientazione non è determinante, quello che caratterizza il libro sono i pensieri, i ricordi, i gesti della donna che si racconta.
La solitudine accompagna tutti i quadri, anche quando la protagonista incontra altre persone: i colleghi, la madre, un amico che è un amore platonico, la cartolaia, il passante. Per questo la sensazione è quella di un’anima inquieta, alla ricerca di un equilibrio, di un mondo nel quale poter stare, dove potersi muoversi. Ci sono consuetudini che, come tali, si ripetono, persone che si rincontrano come se il tempo non esistesse, quasi come se il tempo possa portare in alcuni luoghi che non cambiano di per sé, ma cambiano perché noi stessi cambiamo.
Lo sguardo delicato e accondiscendente dell’autrice si accompagna a uno stile narrativo essenziale: frasi brevi e con poche subordinate. Emergono ancor meglio dalla semplicità le contraddizioni dell’animo umano, che sono viste con consapevolezza, senza giudizio, con una logica dell’accogliere sia i pensieri, i dubbi, sia eventuali errori.
L’atmosfera è rarefatta, c’è un’attesa palpabile, quasi un quadro di Hopper dipinto nell’animo della protagonista.
C’è il restare e l’andare che caratterizzano la vita
“perché alla fine l’ambientazione non c’entra nulla: lo spazio fisico, la luce, le pareti. Non importa che sia sotto un cielo o sotto la pioggia… Altro che ferma, sono sempre e soltanto in movimento, in attesa o di arrivare o di rientrare, oppure di andare via” (pp. 156).
Articolo scritto per www.criticaletteraria.org